Arrivo a Trequanda, paesino tra la Val d’Orcia e le Crete senesi, salendo da una strada polverosa nel sole di una luminosa mattinata di agosto e mi sembra di entrare in un mondo a parte. Le mura antiche, una volta varcate, come mi aspettavo separano esterno da interno, campagna da borgo, sole e ombra, prima e dopo. Sono però i suoni a colpirmi di più, o meglio: l’assenza di suoni. Se fuori dalla Porta A Sole si percepivano il frinire delle cicale ed in lontananza i motori delle rade auto di passaggio, all’interno del paese mi abbraccia un silenzio solido, rassicurante come le pietre sbrecciate degli edifici che lo compongono.
Sono case impilate una sull’altra come giochi di costruzioni di un bambino distratto, separate da strette stradine dal selciato variopinto ed unite da archi poco più che ad altezza d’uomo. Ovunque i dettagli, raccontano di una cura antica ed amorevole per i propri luoghi, dalle fessure a terra, commoventi tombini storici, alla gioiosa fioritura di finestre e balconi. Lo so, a volte mi perdo a contemplare i dettagli e rischio di mancare l’insieme, ma a Trequanda gli spunti sono infiniti, vagando a zonzo.
Poi alzo lo sguardo e mi trovo davanti ad una chiesa trecentesca, la facciata una curiosa scacchiera di tufo e travertino. All’interno i temi si stratificano, parlano romanico ma anche barocco e ottocentista e, se qui il silenzio è quasi ovvio, è ora la luce a colpire, piena ovunque, magnificata dalle pareti chiare. Scopro solo dopo che è dedicata ai SS. Pietro e Andrea e che contiene opere di Giovanni di Paolo (‘400), di Bartolomeo de Miranda (1449) e del Sodoma (prima metà del ‘500). Anche qui ciò che osservo più volentieri sono le stranezze minute, come l’anonimo ma bianchissimo altarino barocco laterale del Cuore di Gesù o i bei dipinti appesi sembra quasi a caso sotto una delle finestrelle.
Colgo in questi dettagli la storia spontanea di una gente, quella che parla la lingua del quotidiano, diversa da quella dei grandi monumenti ufficiali che nascono per raccontarne la propria versione, tipo la maestosa torre del Castello Cacciaconti che si staglia, chiara e possente, sulle mura esterne.
Lo ammetto: quella volta mi sono persa sia il Castello che la settecentesca colombaia della Torre del Molino a Vento (ospita cinquecento nidi in terracotta disposti a scacchiera… mania del paese?). Né sapevo che Trequanda fosse di origini etrusche, bandiera arancione del Touring Club nonché una delle Città dell’Olio italiane. Ma queste sono notizie che si trovano facilmente sulle guide, come la sua nobilissima storia, i suoi allevamenti di Chianina e un sacco di altre interessantissime informazioni.
Succede che, ad un certo punto, dalle finestre aperte sopra la strada sento chiacchiere sommesse e acciottolio di stoviglie: deve essere arrivata ora di pranzo! Un signore mi passa accanto con la borsa della spesa, i suoi passi ticchettano veloci nella stradina deserta. Lo vedo allontanarsi riflesso nella sognante vetrina di una bottega artigianale, così mi avvio anche io all’auto, lentamente, lasciandomi alle spalle l’atmosfera sospesa di questo incredibile angolo di mondo.
PS: a Trequanda si produce anche vino! L’ho scoperto quasi subito, ma questa è un’altra storia.